Lunedì, 23 Dicembre 2024

Europa: la crisi è strutturale, la soluzione è politica

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A otto anni di distanza dall’inizio della crisi economica in USA e in Europa, e a sei della sua fittizia trasformazione, per mano delle istituzioni e dei governi UE, da crisi del sistema finanziario privato a crisi del debito pubblico, l’Italia si ritrova con un governo che da un lato è allineato con le posizioni più regressive della Troika (la quale forma di fatto una quadriglia con Berlino); dall’altro non ha evidentemente la minima idea circa le cause reali della crisi, e meno che mai delle strade da provare o da costruire per uscirne. Il gioco dei numeretti che i suoi ministri fanno circa la ripresa o l’occupazione, con la risonanza che vi danno quasi tutti i media, senza che questi tradiscano mai da parte loro un’ombra di spirito critico, appare penoso. In realtà la situazione del paese è drammatica, e l’inanità dilettantesca del governo non fa che peggiorarla. L’Italia ha bisogno urgente di un altro governo che abbia compreso le cause strutturali della crisi quale si presenta in Italia, nel quadro della crisi europea, e possegga per conto suo e sappia mobilitare nel paese le competenze per superarle. È una missione impossibile, è vero, ma è meglio immaginare l’impossibile che darsi alla disperazione.

La crisi ha tre facce. Proverò a delineare i loro tratti principali.

La crisi della UE e dell’euro. La UE è stata fondata sulla base di una serie di gravi errori. Sbagliarono gli intellettuali e i politici che per primi concepirono l’unione come un sorta di abbraccio tra popoli che secondo loro avevano più cose in comune che differenze, a partire da una presunta “identità” o “cultura europea”, nonché dal comune orrore per le due “guerre civili” intervenute nel continente in poco più di trent’anni. Sbagliarono gli economisti nel credere e far credere che le grandi differenze di struttura industriale, produttività, composizione delle forze di lavoro, relazioni sindacali, ricerca e sviluppo, scambi con l’estero ecc. esistenti tra i vari stati membri sarebbero state colmate verso l’alto grazie ai benefici effetti di una moneta unica, l’euro. Infine sbagliarono i capi di stato e di governo nel credere che l’Unione, in quanto fondata sul principio “uno stato (piccolo o grande che fosse) uguale un voto”, sarebbe servita a contenere il predominio economico e politico della Germania.

Beninteso, non ci furono soltanto errori. In generale, a porre le basi del trattato di Maastricht sin dai primi anni del secondo dopoguerra fu il potere economico-finanziario europeo, tramite fior di associazioni neoliberali che rappresentavano e tuttora ne rappresentano la voce e il braccio politico. Tra di esse: la Società Mont Pelérin, la Trilaterale, la Bildeberg, la Tavola Rotonda degli Industriali, la Adam Smith Society, alle quali si è aggiunto più tardi il Forum Mondiale di Davos. Istituzioni internazionali come la Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), insediata a Parigi nel 1961, si sono impegnate senza tregua sin dall’inizio per far sì che il Trattato UE contenesse le più incisive norme possibili a favore della liberalizzazione dei movimenti di capitale. La componente monetaria dell’Unione, fondamentale per il suo funzionamento, è stata dettata sin nei particolari dalla Germania. Nei suoi colloqui con il presidente francese Mitterrand, il cancelliere Kohl fu irremovibile nel pretendere che l’euro fosse il più possibile simile al marco; che la BCE fosse dichiarata per statuto indipendente dai governi, una clausola mai vista negli statuti delle banche centrali di tutto il mondo: tant’è vero che essa si è presto rivelata essere un organo prettamente politico, che invia lettere durissime agli stati membri, Italia compresa, affinché taglino sanità, pensioni e salari; che la BCE stessa avesse sede in una città tedesca (Francoforte). Su queste basi l’euro è stato giustamente definito il più efficace strumento mai inventato per tenere bassi i salari, demolire lo stato sociale e liquidare il diritto del lavoro.

A meno di venticinque anni dalla sua fondazione e meno di quindici dall’introduzione dell’euro, la UE sta andando verso il disastro. Tra il 2008 e il 2010 i governi UE hanno speso o impegnato 4.500 miliardi di euro per salvare le banche, ma non sono riusciti a trovarne 300 per salvare la Grecia, la cui uscita incontrollata dall’euro potrebbe far implodere l’intera UE. Gli squilibri tra gli stati membri sono aumentati anziché diminuire. Ad onta della normativa UE che impone di limitare l’eccedenza export-import, la Germania continua ad avere eccedenze dell’ordine di 160-170 miliardi l’anno, uno squilibrio che potrebbe contribuire al fallimento dell’Unione. La disoccupazione colpisce 25 milioni di persone. Le persone a rischio povertà sono oltre 100 milioni. In vari paesi – Grecia, Italia, Spagna - la inoccupazione giovanile oscilla tra il 40 e il 50 per cento, un tasso mai visto da quando essa viene censita. Le politiche di austerità imposte dai governi per conto delle istituzioni UE, nel mentre si sono rivelate fallimentari, hanno colpito con durezza i sistemi di protezione sociale e l’istruzione; bloccata pericolosamente la manutenzione delle infrastrutture di base (ponti, dighe, strade, trasporti locali, viadotti, corsi d’acqua: per risanarli ci vorranno migliaia di miliardi); spinto nella povertà altre masse di persone, anche in Germania che proprio dell’impoverimento dei vicini aveva fatto il perno della sua politica economica. Non basta: le politiche di austerità, secondo molti giuristi, hanno violato decine di articoli di tutte le leggi riguardanti i diritti umani e i crimini contro l’umanità, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 ad oggi: leggi, si noti bene, che i trattati UE hanno a suo tempo fatto proprie. La popolazione reagisce a quanto avviene in due modi: non andando a votare nella misura del 60 per cento per l’unico organo UE democraticamente eletto, il Parlamento europeo, con punte dell’80 per cento nei nuovi stati membri (dati 2014); e dando invece un largo e crescente consenso alle formazioni di estrema destra, in Francia, Italia, Polonia, Ungheria, ecc. Il che farebbe pensare che gli elettori non abbiano memoria del pericolo che esse rappresentano per la democrazia – se non fosse che nella UE la democrazia è stata già da tempo svuotata di senso dalla oligarchia politico-finanziaria di Bruxelles e dintorni.

Data la situazione attuale della UE, se non si fa nulla per affrontarla il futuro propone soltanto due scenari, al momento ugualmente probabili:

a) la UE crolla all’improvviso e in malo modo a causa di un incidente che trascina con sé tutta la barcollante struttura dell’Unione: ad esempio, un paese è costretto a uscire dall’euro perché a causa del suo bilancio pubblico strangolato dalle politiche di austerità non riesce a pagare i suoi creditori privati. I quali sono tanto stupidi da non rendersi conto che è sempre meglio un debitore che paga poco, in ritardo e a rate, di un debitore che non può pagare niente perché è stato imprigionato a causa del suo debito. (Lo scrittore Daniel Defoe, ch’era stato imprigionato per debito nel 1692, verso il 1705 riuscì a convincere con un suo scritto il governo inglese a introdurre una riforma che permetteva al debitore di continuare a lavorare e produrre reddito, in modo da poter rimborsare almeno in parte i suoi creditori piuttosto che marcire inoperoso in prigione. Al confronto, la Troika è in ritardo di tre secoli). Oppure potrebbe accadere che una grande banca europea fallisca, trascinandone altre con sé. Dall’inizio della crisi alcune delle maggiori banche europee, a cominciare dalla britannica HSBC, hanno pagato in complesso decine di miliardi di dollari a causa di varie penalità che hanno accettato di pagare alle autorità americane ed europee per non arrivare a un processo relativo a innumeri violazioni delle leggi finanziarie che esse hanno compiuto in mezzo mondo. Ma è possibile che a un certo punto un processo arrivi, e le sue conseguenze siano tali che la banca interessata fallisce perché né il suo governo né le istituzioni europee dispongono più dei mezzi per salvarla, da cui un effetto domino che travolge sia la UE che l’euro.

b) Il secondo scenario prevede che la UE e l’euro sopravvivano alla meglio per altri venti o trent’anni, cucendo rappezzo su rappezzo istituzionale per far fronte ai sempre più diffusi segni di malcontento di nove decimi della popolazione, impoverita e tartassata dal lavoro che manca, dalla distruzione dei sistemi di protezione sociale, dai continui diktat oligarchici della Commissione Europea e delle BCE che esautorano totalmente i governi nazionali senza dare nulla in cambio. Intanto il decimo al vertice della stratificazione sociale continua ad arricchirsi a spese degli altri nove: dopotutto, è per esso che i trattati UE sono stati confezionati.

Nel caso invece che qualcosa si volesse fare, una soluzione potrebbe esserci. La UE convoca una Conferenza sul Sistema Monetario Europeo, il cui punto principale all’ordine del giorno dovrebbe essere la soppressione consensuale dell’euro, ed il ritorno alle monete nazionali con parità iniziale di 1 rispetto all’euro. Altri punti dovrebbero riguardare la preparazione tecnica della transizione, e una estesa campagna di informazione pubblica prolungata per mesi. Si potrebbe anche prevedere che l’uscita dall’euro sia decisa paese per paese, di modo che se qualche stato membro lo volesse fare ne avrebbe facoltà, mentre altri potrebbero tenersi l’euro.

È innegabile che anche la soppressione consensuale dell’euro presenta dei rischi. Com’è vero che in ogni caso essi sarebbero inferiori a quelli che oggi corre la UE sia per i suoi difetti strutturali, sia per la possibilità che l’uscita improvvisa di un paese – si tratti della Grexit, della Brexit (sebbene la Gran Bretagna non abbia l’euro) o altro – rechi seri danni agli altri. Ma di certo i rischi sarebbero accentuati dai paesi – in primo luogo la Germania – che dall’euro hanno tratto i maggiori vantaggi. Una variante che ridurrebbe i rischi potrebbe consistere nel mantenere in vita l’euro, mentre ogni stato emette e fa circolare sul proprio territorio una moneta fiscale parallela. Da moneta unica l’euro diventerebbe così una moneta comune. Il predicato “fiscale” significa qui che il valore della nuova moneta sarebbe assicurato dal fatto che essa verrebbe accettata per il pagamento delle imposte – il maggior riconoscimento che una moneta possa ottenere dallo stato – e sarebbe comunque garantita dalle entrate fiscali. Si noti che progetti di una moneta parallela all’euro che ogni stato emette per conto proprio sono assai numerosi in Francia, nel Regno Unito, e soprattutto in Germania.

La richiesta di una Conferenza sull’Unione Monetaria dovrebbe essere presentata alla UE da alcuni paesi di primo piano, con il sottinteso che un rifiuto netto potrebbe indurre ognuno di essi o all’uscita dall’euro o al disconoscimento di numerose norme UE che violano i diritti umani o addirittura si configurano come foriere di crimini contro l’umanità. Non mancano nella UE i giuristi in grado di predisporre la documentazione necessaria. Al presente, i soli paesi disponibili a tal fine sono forse la Grecia, ammesso che “al presente” essa sia ancora nell’euro o il governo Tsipras non sia stato strangolato dalla Troika; e la Spagna, nel caso di una vittoria di Podemos alle elezioni dell’autunno 2015. Da parte del governo italiano in carica un atto simile è inimmaginabile, essendo il medesimo del tutto allineato sui rovinosi dogmi di Bruxelles. Per questo è necessario sostituirlo al più presto con un governo orientato diversamente, e dotato di competenze post-neoliberali di cui nel governo attuale non v’è la minima traccia.

La crisi economica ed occupazionale. Nei paesi più sviluppati del mondo, USA e UE, che da soli producono circa la metà del Pil globale, l’economia capitalistica ha imboccato da tempo un periodo di stagnazione che secondo molti esperti potrebbe durare anche cinquant’anni. In Usa, nel decennio degli anni 50 i trimestri in cui il Pil reale cresceva di almeno il 6 per cento l’anno sono stati 40. Negli anni 70 erano scesi a 25. Nei ’90, a meno di dieci. Infine nel periodo 2000-2013 sono stati in tutto tre. Sebbene sia difficile fare una stima aggregata del Pil dei paesi oggi membri della UE, visto che in settant’anni hanno avuto storie politiche ed economiche diverse, si stima che l’andamento del Pil nella UE sia stato all’incirca il medesimo. Al presente, un altro indicatore di stagnazione è il forte e prolungato rallentamento degli investimenti nell’economia reale. Essi rendono poco rispetto alle attività speculative svolte nel sistema finanziario, il quale peraltro all’economia reale non reca alcun beneficio (al punto che in realtà non ha nessun senso chiamarli “investimenti”). Risultato numero uno: si stima che circa il 70% dei capitali circolanti sia destinato alle seconde. Il capitalismo ha posto così le premesse per una sorta di suicidio al rallentatore. Mediante l’automazione ha ridotto drasticamente il numero dei produttori nell’economia reale (servizi compresi). Con la forsennata compressione dei salari reali, (in aggiunta alla riduzione dei produttori) ha ridotto il potere d’acquisto dei consumatori. Per investire l’impresa capitalistica deve poter stimare quanti sono quelli a cui venderà i suoi beni o servizi, e più o meno per quanto tempo. Nei nostri paesi si è messa in condizione di non poterlo più fare.

La riduzione degli investimenti è anche dovuta al fatto che da decenni il capitalismo non inventa più nulla che possa diventare un consumo di massa. Al contrario di quanto asseriscono gli economisti neoclassici, il capitalismo non vive affatto di una continua innovazione endogena. Ha bisogno di robusti e ripetuti stimoli esterni. Negli anni 50 e 60 li hanno forniti, nei nostri paesi, i consumi di massa di auto, elettrodomestici, televisori. La diffusione in atto dei cellulari, dei tablets, dei PC – tutti fabbricati in Asia – non ha avuto né potrà mai avere effetti paragonabili sulla crescita e sull’occupazione di un paese europeo. Inoltre tanto la produzione quanto il consumo dei beni e dei servizi proposti dall’attuale modello produttivo si fondano su energie tratte da risorse fossili, mentre gli scienziati del mondo intero avvertono che l’inversione dell’attacco all’ambiente, che presuppone una drastica riduzione di tali fonti energetiche, dovrebbe avvenire ormai entro breve tempo se si vuole evitare una catastrofe. In sintesi: l’idea di una ripresa paragonabile al passato – la famosa luce in fondo al tunnel – è una illusione priva di fondamento. E se mai dovesse verificarsi, sarebbe ancora peggio, perché avvicinerebbe il momento di un disastro ambientale irreversibile.

Non basta. Il termine “automazione” si riferisce da cinquant’anni alla sostituzione di lavoro fisico da parte di macchine. Ma la microinformatica ha anche enormemente esteso sia le capacità delle macchine operatrici, sia le capacità dei computer di svolgere attività intellettuali che fino a pochi anni fa si sosteneva non fossero automatizzabili. Risultato numero tre: in Usa si stima che il 47 per cento degli attuali posti di lavoro, finora occupati da esseri umani a causa del loro contenuto intellettuale e professionale medio-alto, possano venire svolte entro pochi anni da una qualche combinazione di macchine, computer e programmi intelligenti. In altre parole potrebbero scomparire più di 60 milioni di lavoro. Un processo analogo di sostituzione di esseri umani da parte dei computer è in corso anche in Europa. Una politica che non si occupi primariamente di questo problema, come avviene nella UE e in modo ancor più marcato in Italia, non soltanto è da buttare per la sua inefficienza; è una minaccia per milioni di cittadini.

Da quanto precede se ne trae che l’Italia dovrebbe progettare al più presto un piano pluriennale di transizione a un diverso modello produttivo, che abbia come caratteristiche principali l’essere fondato su progetti o settori ad alta intensità di lavoro; elevata qualificazione; tecnologie avanzate; consumi ridotti di energie fossili; elevata utilità pubblica; massima attenzione ai beni comuni. Esso dovrebbe inoltre prevedere il passaggio regolato di milioni di lavoratori dai settori in declino ai nuovi settori. Non è il caso per ora di inoltrarsi in un elenco di questi ultimi: si rimanda alla ragguardevole letteratura esistente sulla trasformazione industrial-ecologica dell’economia. Qui basti dire che il riassetto idrogeologico dell’intero territorio, il miglioramento del rendimento energetico delle abitazioni, gli interventi antisismici nelle zone più a rischio, la tutela dei beni culturali assorbirebbero da soli milioni di posti di lavoro. La complessità e l’ampiezza di un simile piano renderebbe necessario l’impiego delle migliori competenze tecniche ed economiche, pubbliche e private, di cui il paese disponga. E soltanto un governo totalmente rinnovato quanto a cultura politica e competenze professionali sarebbe capace di guidarne la realizzazione. Inutile aggiungere che un simile piano deve poter iniziare entro pochi mesi, per essere via via sviluppato e rettificato.

Il caso italiano. Una delle cause strutturali per cui la crisi europea ha colpito l’Italia più di altri paesi sono le sue antiche carenze quanto a istruzione e ricerca e sviluppo (R&S). In vista di una transizione a un diverso modello produttivo e occupazionale sarebbe essenziale aumentare in misura considerevole la spesa pubblica per la scuola secondaria e l’università. Con il 22 per cento dei diplomati contro una media del 36 per l’intera UE l’Italia occupa l’ultimo posto in tale classifica. È una percentuale scandalosamente bassa; e ancora più scandaloso è il fatto che dinanzi all’obbiettivo proposto dalla Commissione Europea di raggiungere il 40 per cento entro il 2020 come media UE, uno dei nostri recenti governi abbia risposto che l’Italia punta nientemeno che al 27 per cento. Dati analoghi valgono per i laureati. L’obiezione per cui diplomare o laureare un maggior numero di giovani non serve allo sviluppo, o è addirittura un danno, perché tanto non trovano lavoro, è priva di senso. I giovani non trovano lavoro perché non esistono politiche economiche capaci di creare nuovo lavoro nel momento in cui il lavoro tradizionale scompare.

Anche in tema di R&S siamo messi male. Tra i 32 paesi Ocse l’Italia occupa il penultimo posto quanto a spesa in R&S, con un misero 1,25 per cento tra pubblico e privato. Le statistiche delle richieste di brevetto depositate presso l’Ufficio Brevetti europeo, che vedono l’Italia in coda ai maggiori paesi UE sia quanto a numero sia quanto a contenuto tecnologico, riflettono tale povertà di spesa. Come minimo occorrerebbe raddoppiare quest’ultima nel più breve tempo possibile.

Di fronte ai problemi sopra richiamati, alla pericolosità della crisi UE, ed alla addizionale gravità di quella italiana, il governo Renzi non esiste. Non che, per ora, le opposizioni offrano gran che di meglio. Moltiplicare invettive contro il dominio della finanza, oggi ben rappresentato dall’euro, non serve: anche il Mein Kampf ne era pieno (dieci anni dopo, non a caso, il suo autore giunto al potere impiegò poche settimane per accordarsi con la grande finanza). Il dominio bisogna prima seriamente studiarlo, per poi smontarlo pezzo per pezzo con strumenti politici e legislativi appropriati. Né serve a molto inveire contro la casta. Una volta stabilito che si tratta di una intera classe politica che ha fatto da decenni il suo tempo, nonché di buona parte della classe imprenditoriale, si tratta di sostituirla con una classe avente una concezione del mondo diversa e opposta, che sappia amministrare il paese e ogni sua parte in nome dei diritti al lavoro e del lavoro; dell’uguaglianza (in una economia dove gli amministratori delegati guadagnino magari 50 volte i loro dipendenti e facciano bene il loro mestiere invece di guadagnare 500 volte e farlo male); dei beni comuni da sottrarre alle privatizzazioni; di una economia che non distrugga l’ambiente nel quale dovrebbero vivere e prosperare i nostri discendenti.

Allo scopo di far emergere dal paese, che da più di un segno appare in grado di farlo, una nuova classe dirigente all’altezza del compito, occorrono i voti. Per moltiplicare i voti necessari occorre che il maggior numero possibile di elettori comprenda qual è l’enormità della posta in gioco, in Italia come nella UE, e la relativa urgenza. E se è vero che l’opinione politica si forma per la massima parte sotto l’irradiazione dei media, è di lì che bisogna partire. Supponendo che la traccia proposta sopra sia qualcosa di assimilabile a uno schema di programma politico a largo raggio, bisognerebbe quindi avviare una campagna di comunicazione estesa, incessante, capillare, volta a mostrare che la rappresentazione che il governo e i media fanno di quanto avviene è una deformazione della realtà, e poco importa se non è intenzionale. Insistendo su pochi punti essenziali, siano essi quelli qui indicati o altri – purché siano pochi e di peso analogo. Lo scopo è semplice: ottenere che alle prossime elezioni parecchi milioni di cittadini votino per una società migliore di quella verso cui stiamo rotolando, a causa dei nostri governi passati e presenti, non meno che della deriva programmata della UE verso una oligarchia ottusa quanto brutale.

La Fiom è il sindacato delle lavoratrici e lavoratori metalmeccanici della Cgil

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